UN PO’ DI STORIA. Nel 1910 Milazzo si poteva considerare – sotto il profilo economico – un “unicum”; una città dove coesistevano industria, commercio e agricoltura. Era stata aperta nel 1899 la grande fabbrica di concimi chimici denominata “Società Prodotti Chimici, colla e concimi” (cfr. pubblicità del 1907) con sede a Roma i cui proprietari erano vicini all’onorevole Giolitti. Anche Ignazio Florio fu azionista della società con il 30% e il suo apporto di capitale consentì la realizzazione dello stabilimento di Milazzo. Sempre in quel periodo Milazzo vantava “grandiosi molini e pastifici a vapore”, alcune fabbriche di botti e numerosi artigiani bottai che non riuscivano a soddisfare le copiosa domanda di botti necessarie per la commercializzazione dei vini. Erano presenti industrie conserviere, per la raffinazione di olii, tre fabbricanti di ghiaccio.
Gli annali di quegli anni descrivono una città con “commercio attivissimo di esportazione e di importazione con l’Inghilterra, coll’America del Sud e con i paesi di Levante”; i principali prodotti esportati erano vini (specie in Francia, per “conciare” altri vini), olio d’oliva, agrumi. Il porto impiegava molta mano d’opera con centinaia di occupati tra scaricanti di grano e carbon fossile, braccianti del molo e componenti della “carovana” (squadre che venivano formate giornalmente in relazione alle esigenze di carico-scarico), stivatori, costruttori di casse per gli agrumi, carrettieri e conduttori di carri. La maggior parte dei prodotti esportati erano collegati con le produzioni agricole che richiedevano un elevato numero di contadini e braccianti. Da sempre la Piana di Milazzo era conosciuta per la fertilità del suolo. Teofrasto, il discepolo prediletto da Aristotele, in uno dei suoi trattati di botanica l’aveva citata come esempio di terra dove “la resa del seme può arrivare a trenta volte”.
I salari dei “metateri” variavano a seconda della località siciliane da lire 1,125 a 1,50 a giornata
La piana nei secoli aveva garantito ingenti produzioni di cereali e grano anche nei periodi di carestie e pestilenze. Ma a quasi cinquant’anni dall’unità d’Italia la situazione dei contadini e di chi viveva in campagna era vera ignominia. Le riforme promesse non erano state realizzate e la vendita dei beni ecclesiastici non aveva modificato la miseria e la povertà. Già ai tempi dell’inchiesta sulla condizione dei contadini in Sicilia effettuata da Franchetti e Sonnino nel 1876 era stata evidenziata la miserabile condizione di braccianti e giornalieri, la categoria più numerosa dei contadini siciliani. Non se la passavano meglio i “metateri” costretti anch’essi dalla povertà a locare la giornata quando non avevano lavoro nel campo. I salari variavano a seconda della località siciliane da lire 1,125 a 1,50 a giornata. Tuttavia l’inchiesta aveva anche evidenziato la migliore situazione nella Piana di Milazzo per la presenza di case coloniche e per il lavoro delle donne “non solo nella raccolta delle olive e della frutta e alla vendemmia, ma anche nei lavori minori dei campi; esse aiutano in genere gli uomini nella coltivazione del podere e s’impiegano pure fuori a giornata”.
I consigli comunali dell’epoca erano costituiti da rappresentanti dei ceti borghesi e conservatori e si accanivano nel difendere il reddito dei ceti privilegiati rovesciando il carico tributario sui ceti più deboli e pazienti; venivano tassati con dazi i beni di consumo che contadini e braccianti erano costretti ad acquistare con il loro misero reddito quali la pasta, il pane, la farina, il formaggio, i legumi. Nel 1910 la città contava circa 17.057 abitanti, un balzo considerando i 10.493 del 1871, ma la situazione per la maggioranza della popolazione non era granchè mutata rispetto ai decenni precedenti. Le plebi rurali della piana permanevano in una condizione di quasi schiavitù con una proprietà terriera ancora in mano a poche famiglie, alcune aristocratiche, altre meno. Erano accomunate da superbia, durezza nei rapporti, disprezzo verso coloni e braccianti tipico di chi guardava alla terra come al mezzo per collocare al sicuro i risparmi e far fruttare le proprietà ereditate.
Le case di “metateri” e coloni erano fatiscenti; quasi sempre due stanze, forno, “fucularu” e dispensa collegati alla casa per i più fortunati, senza bagno, acqua al pozzo o di cisterna; in qualche caso una scala conduceva al piano di sopra dove si trovavano le camere da letto. Una nuova inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia venne completata nel 1910. La relazione finale si sofferma sulle condizioni di sfruttamento e di povertà del mondo contadino. Nelle tavole allegate alla relazione si riscontra che a Milazzo una giornata di lavoro ordinario in campagna (ad esempio “la zappatura”) veniva pagata lire 1,60 mentre nel caso di una parte di salario corrisposta in natura si percepivano lire 1,40 oltre il vino, per la potatura o la rimonda degli alberi si passava a lire 1,70 oppure a lire 1,50 oltre il vino.
Una giornata di lavoro delle donne adibite a concimazione, solforazione, vendemmia, raccolta delle olive, legatura dei tralci veniva pagata da lire 0,60 a lire 0,80; una nota della relazione precisa che “tali salari vigono da qualche anno e sono dovuti all’emigrazione, prima le donne si pagavano lire 0,50 a giornata”. La comparazione tra le tabelle della paga per la piana di Milazzo e quelle dei comuni vicini desta incredulità: in tutti i comuni del circondario le retribuzioni erano più alte rispetto a quelle di Milazzo. A Monforte San Giorgio per la zappatura si davano lire 2,20 al giorno, lire 1,75 a San Filippo e a Santa Lucia del Mela, a San Pier Niceto lire 2,00 al giorno. Anche le donne nei comuni vicini percepivano un salario che era leggermente più alto rispetto a quello di Milazzo, addirittura a Monforte San Giorgio arrivava a lire 1,00 al giorno; una nota indica “tali compensi vigono da qualche anno e furono effetto dell’emigrazione e del caro dei viveri”.
Eppure Milazzo era una città ricca, con borghesi e commercianti che avevano fatto fortuna, con industrie fiorenti, un territorio che ospitava ville patrizie sia al Capo che nella Piana. Per rendersi conto dello stato di indigenza e di quasi miseria di buona parte della popolazione rurale occorre comparare il guadagno giornaliero con il costo dei generi di prima necessità: con 40 centesimi si comprava 1 Kg. di farina, con 10 centesimi 1 kg. di patate, con 30 cent. 1 kg. di pane, tra lire 1,50-1,60 per 1 lt. d’olio, per 1 kg. di zucchero e 1 kg. di salame servivano 5 lire, 1 kg. di lardo costava 2 lire, 1 kg. di carne di manzo richiedeva quasi 2 lire, più del guadagno di un’intera giornata di lavoro. Nelle case serviva il petrolio per accendere il lume e 1 litro di petrolio costava 40 centesimi. Un biglietto di II^ classe sul vapore per Lipari (solo andata £ 1,40) costava quasi quanto un giorno di lavoro e pochissimi, solo i benestanti, se lo potevano permettere.
Pino Privitera
Probabilmente c’era più sviluppo economico allora che oggi.Qualcuno o politico mi risponda se è lavoro stabile fare p.es il bagnino, addetto lidi,ecc.Non si vive di solo turismo,altrimenti la città arretrerà economicamente e quindi può accadere un costante spopolamento.