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giovedì, 19 Settembre 2024

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La peste del 1575, il primo “lockdown”  della storia di Milazzo. Una epidemia debellata in Sicilia grazie al medico Giulio da Melazzo

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UN PO’ DI STORIA. La peste del 1575, il primo “lockdown”  della storia di Milazzo.  La figura  e l’opera di  Giulio da Melazzo, medico, componente del collegio preposto alla stesura  delle direttive per debellare il morbo. La Grotta Polifemo trasformata in Lazzaretto.  La chiesa di San Rocco come voto per la fine della peste.  

Di alcune terribili epidemie sappiamo ben poco. Le poche notizie sulle pestilenze diventano più consistenti a partire dal XVI secolo e si accompagnano allo sviluppo dell’arte medica. In precedenza (cfr “La grande peste del 1347…” del 20.06.24) mi ero occupato della “peste nera” che negli anni compresi  tra il 1347 e il 1349 aveva spopolato la Sicilia; anche Milazzo  era stata  colpita duramente come le principali città di mare  dell’isola.  Anche quella del 1575 fu di “origine forestiera” introdotta via mare come già era accaduto nelle epidemie dei secoli precedenti. Scrive il Mongitore (“Della Sicilia ricercata” 1743) che nell’anno 1575 “la peste in Sicilia fece le maggiori prove della sua crudeltà…”.

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Il famoso Protomedico del Regno F. Ingrassia (1512-1580) scrive nella “Descrizione sulla peste del 1575” che “una galeotta venuta dall’Egitto carica di mercadanzie appestate, approdata in Sicilia e in vari porti barattando ivi le sue mercanzie, appestasse le città principali del Regno e la maggior parte delle città marittime…”  Con il diffondersi del contagio la paura e il terrore prendevano il sopravvento. Erano tre le regole che la credenza popolare poneva alla base delle possibilità di sopravvivere: fuggire prima possibile, andare ad abitare lontano, ritornare tardi. Le epidemie erano in grado di influenzare e condizionare la crescita economica  e demografica delle città, inoltre con la fuga le città venivano in poco tempo sommerse dalla sporcizia.

La citazione di F.Ingrassia sul medico Giulio di Melazzo (il terzo tra i magnifici…) che ” continuamente medicano e hanno medicato molti”.

La necessità di contenere il contagio portò all’adozione di provvedimenti drastici per frenare il dilagare delle malattie epidemiche. La scienza medica pur se arretrata aveva già fatto qualche passo verso la conoscenza delle  misure che andavano adottate. A Napoli, capitale del Regno, la figura del protomedico era stata istituita sin dal 1538. Primeggiava in quel tempo in Sicilia nel campo medico la figura di Giovanni Filippo Ingrassia (a Palermo un ospedale porta il suo nome) formatosi alla scuola medica padovana, che in quegli anni era la migliore d’Europa. Ingrassia aveva insegnato nell’università di Napoli nel 1544  ed anche in quella di Messina dal 1564 al 1568. Divenne protomedico del Regno nel 1563. Probabilmente nell’Università di  Messina ebbe come allievo Giulio da Melazzo che trasferitosi a Palermo dopo la laurea entrò a far parte del collegio di medici che durante la peste del 1575 fu  posto alle dirette dipendenze  del Protomedico Ingrassia e  del luogotenente del Regno Don Carlo d’Aragona. Poco sappiamo di questo medico nato a Milazzo se non che  aveva casa in Palermo prima della Piazza della “Feravecchia” vicino alla Chiesa dello Spasimo (Gioacchino Di MarzoBiblioteca Storica e Letteraria di Sicilia”, 1872). Di certo, come riferisce lo stesso Protomedico Ingrassia che lo annovera tra i suoi primi collaboratori, partecipò alla elaborazione di tutti i provvedimenti per il contenimento del contagio emanati dal Magistrato preposto alla Suprema Deputazione di  Sanità  di Palermo e da cui dipendevano le Deputazioni di Messina, Siracusa e Trapani  e le sottodeputazioni tra cui quella di Milazzo.  

Giovanni Filippo Ingrassia

Già a Giugno del 1575 alle autorità preposte al governo delle città fu imposto di ripulire le strade  “facendo nettare tutte le puzzolentie  et cagioni di generar fetore…”. Anche a Milazzo le “case infette” vennero sequestrate, erano sorvegliate e nessuno poteva avvicinarsi, in presenza di un morto di peste indumenti e letto venivano bruciati. Venne ordinata l’apertura dei lazzaretti e a Milazzo la Grotta Polifemo divenne “spedale” degli appestati, anche dei sospetti; ambienti separati tra uomini e donne, con ulteriore divisione tra  quelli con febbre e senza febbre. Nelle vicinanze si bruciavano “le robe infette” considerate responsabili del contagio. Punizioni esemplari (la forca, al remo nelle galere,  e altri supplizi) erano previste per i trasgressori e per coloro che si introducevano nella case vuote o perchè i proprietari erano deceduti o si trovavano nel “Lazzaretto”.

Nelle città di mare come Milazzo venne raccomandato di non “albergare persone strane, né ciurmatori et simili persone vagabonde

Nell’estate del 1575 venne emanato un bando che ordinava l’uccisione dei cani; si salvarono i gatti perché mangiavano i topi ma anche i cani da  caccia e di “feuda”, che comunque dovevano tenersi legati. Fu proibito il seppellimento dei cadaveri nelle chiese ed introdotto l’obbligo di interrarli nudi, se possibile ricoperti di calce, lontano dal centro abitato. Nelle città di mare come Milazzo venne raccomandato di non “albergare persone strane, né ciurmatori et simili persone vagabonde”  La comunità doveva sostenere le spese per pagare medici, ospedalieri, sacerdoti e quelle per buoi, muli e cavalli, carri, cocchi, beccamorti e guardie e soprattutto fondi per l’alimentazione dei poveri. Milazzo, che disponeva di frumento in grande quantità al punto da esportarlo e di prodotti agricoli, affrontò la peste del 1575 con buone capacità organizzative e fu in grado di  inviare aiuti alimentari alla stessa Messina.

Nel 1576, come riferisce l’abate cappuccino Francesco Perdichizzi nel “Melazzo Sacro” ebbero inizio i lavori per la costruzione della Chiesa di San Rocco come voto fatto dalla  città per ottenere la liberazione dalla peste.

Se  Palermo ebbe la fortuna di poter contare sul sistema ideato dal celebre medico Ingrassia, Milazzo e la deputazione di sanità cittadina poterono contare sui suggerimenti e sulla guida di Giulio da Melazzo, che fu in grado di far pervenire tempestivamente attraverso i corrieri del Regno le direttive emanate dal Magistrato di Sanità. Già  alla fine del  1575, ma più probabilmente nel 1576, come riferisce l’abate cappuccino Francesco Perdichizzi nel “Melazzo Sacro” ebbero inizio i lavori per la costruzione della Chiesa di San Rocco come voto fatto dalla  città per ottenere la liberazione dalla peste. Non mancarono gli scontri tra il clero e le autorità civili  poiché tra i divieti imposti vi fu anche quello  che proibiva l’organizzazione di processioni. 

L’epidemia a Milazzo così come in tutta la Sicilia venne  ritenuta  “punizione divina”, accrebbe il fervore religioso con l’inizio negli stessi anni (1576-1577) della costruzione del Monastero  dei Cappuccini e della annessa Chiesa sul poggio di  Vaccarella e sempre  nello stesso periodo, come riferisce Francesco Napoli nelle “Memorie della Citta di Milazzo”,  si completò la costruzione della Chiesa e del convento del Carmine. A metà del 1576 secondo alcune fonti (Mongitore) l’epidemia di peste era sotto controllo e in tutta la Sicilia già si celebravano i “Te deum laudamus” di ringraziamento per l’avvenuta liberazione dal contagio.  

Pino Privitera

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